COMUNICATO STAMPA Residenza e richiedenti asilo. Avvocato di strada batte Decreto sicurezza 2 a 0. Dopo le vittorie in Tribunale arriva la conferma dalla Corte Costituzionale
“Il coronamento di una battaglia che abbiamo portato avanti nei Tribunali di tante città italiane”. Il Presidente dell’Associazione Avvocato di strada Antonio Mumolo commenta così il pronunciamento della Corte Costituzionale che oggi ha dichiarato irragionevole, e incostituzionale, la norma del Decreto sicurezza che preclude l’iscrizione anagrafica ai richiedenti asilo.
“Non consentire ai richiedenti asilo di prendere la residenza anagrafica – sottolinea Mumolo – non serviva a nulla se non ad escludere ancora di più persone che vivono già in fortissima difficoltà e che senza residenza non possono cercare lavoro, aprire un conto in banca, ottenere un documento di identità”.
“Dopo aver inutilmente segnalato l’incostituzionalità della norma abbiamo portato la nostra battaglia in Tribunale ottenendo sempre delle vittorie. La decisione della Corte Costituzionale, conclude Mumolo – mette la parola fine su una brutta pagina durata fin troppo. Siamo felici per questa vittoria e per questa conferma: lo stato di diritto non si può stravolgere in nome di un populismo e un razzismo malcelati”.
I nuovi schiavi e il diritto alla regolarizzazione
Dal giorno 1 giugno, e fino al 15 luglio, sarà possibile procedere alla regolarizzazione dei lavoratori assunti irregolarmente, perché privi di permesso di soggiorno, nei settori dell’agricoltura e del lavoro domestico.
Parliamo dei nuovi schiavi, senza diritti perché senza documenti, che in questi anni hanno assistito i nostri anziani o si sono spaccati la schiena in campagna, per pochi euro.
Nell’antica Roma, narrano, solo il padrone poteva rendere la libertà allo schiavo.
Oggi, dicono, solo i datori di lavoro possono affrancare i nuovi schiavi, presentando istanza di regolarizzazione per coloro che sono privi di permesso di soggiorno.
In realtà non è così.
Oggi si può utilizzare un’arma potentissima, che è quella del diritto, per riappropriarsi della libertà di vivere con dignità.
Vediamo come.
Il D.L. 34/2020, all’art. 103, comma 1, stabilisce che “i datori di lavoro italiani o cittadini di uno Stato membro dell’Unione europea, ovvero i datori di lavoro stranieri in possesso del titolo di soggiorno previsto dall’articolo 9 del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, e successive modificazioni, possono presentare istanza, con le modalità di cui ai commi 4, 5, 6 e 7, per concludere un contratto di lavoro subordinato con cittadini stranieri presenti sul territorio nazionale ovvero per dichiarare la sussistenza di un rapporto di lavoro irregolare, tuttora in corso, con cittadini italiani o cittadini stranieri.”
Al comma 4 del medesimo articolo si stabilisce che “Nei casi di cui ai commi 1 e 2, se il rapporto di lavoro cessa, anche nel caso di contratto a carattere stagionale, trovano applicazione le disposizioni di cui all’articolo 22, comma 11, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 e successive modificazioni, al fine di svolgere ulteriore attività lavorativa.”
Come si possono interpretare queste norme?
Alcuni ritengono che, dalla lettura dei suesposti commi, si desume che solo i datori di lavoro possano procedere alla regolarizzazione dei loro dipendenti assunti irregolarmente.
Ma è davvero accettabile, e costituzionalmente lecito, che una persona che ha lavorato, seppur priva di documenti, debba delegare i suoi diritti, la sua possibilità di regolarizzarsi e, in una parola, il suo futuro, alla volontà di un datore di lavoro?
Da una prima lettura dell’articolo 1, comma 1, d.l. n. 34/2020, l’espressione “possono presentare istanza”, potrebbe portare a ritenere che il datore di lavoro che impieghi lavoratori extracomunitari (o comunitari o italiani) irregolari abbia semplicemente la facoltà – e non l’obbligo giuridico – di regolarizzarli.
E’ tuttavia evidente che, un’interpretazione di questo tipo, non possa in alcun modo essere condivisa in quanto verrebbe a legittimare una situazione di fatto diametralmente opposta a quella perseguita dal legislatore con l’emanazione del d.l. n. 34; infatti, il fine che è espressamente dichiarato nell’incipit del comma 1 dell’art. 103 è quello “di garantire livelli adeguati di tutela della salute individuale e collettiva in conseguenza della contingente ed eccezionale emergenza sanitaria connessa alla calamità derivante
dalla diffusione del contagio da -covid-19 e favorire l’emersione di rapporti di lavoro irregolari..”
Semplicemente leggendo l’inizio dell’art 103 balza immediatamente agli occhi che l’unica interpretazione da escludere è quella che annetta al testo un significato di carattere facoltativo. La norma, infatti, non può essere interpretata nel senso che il legislatore avrebbe affidato al datore di lavoro la realizzazione di una condizione meramente potestativa, in latino “si voluero”, cioè “se vorrò”.
Se gli scopi perseguiti dal legislatore sono quelli di garantire livelli adeguati di tutela della salute individuale e collettiva e favorire l’emersione di rapporti di lavoro irregolari, non avrebbe senso logico, prima che giuridico, affidare la realizzazione di questi scopi, ovvero la salvaguardia della salute individuale e collettiva ed il principio di legalità nei rapporti di lavoro, alla sola volontà del datore di lavoro.
E dunque, l’interpretazione del combinato disposto dei commi 1 e 4 dell’art. 103 del D.L. 34/2020 non può che essere un’altra.
A parere di chi scrive, l’art. 1, comma 1, cit. determina, a carico del datore di lavoro, l’obbligo di regolarizzare la posizione lavorativa dei propri dipendenti irregolari, extracomunitari, comunitari o italiani.
I datori di lavoro quindi sono obbligati alla presentazione dell’istanza e la frase “possono presentare istanza” contenuta nella norma sta sicuramente a significare: “sussistono le condizioni perché presentino istanza”.
Ritenere che la norma in esame ponga un obbligo in capo al datore di lavoro, d’altra parte, sembra essere l’unica interpretazione capace di salvaguardare la compatibilità della stessa con le inderogabili prescrizioni costituzionali a tutela della salute, intesa come diritto collettivo oltre che individuale, ed a tutela del lavoro.
Cosa ciò voglia dire dovrebbe essere scontato ma non è superfluo ricordare che, a differenza di altre tutele dispiegate nella Costituzione a favore dei soli cittadini, quelle attinenti il diritto alla salute ed il diritto del lavoro sono previste a favore della generalità delle persone, senza possibilità di distinzione alcuna fra cittadini italiani, comunitari o stranieri.
La tutela che la Repubblica deve garantire ai diritti alla salute ed al lavoro non può certo tradursi nell’affidamento al completo arbitrio del datore di lavoro, i cui interessi particolari possono anche non coincidere con l’interesse collettivo di salvaguardia dei sunnominati diritti.
Un’interpretazione diversa, che attribuisse alla discrezionalità datoriale la possibilità di regolarizzare i propri lavoratori irregolari, o solo alcuni scelti arbitrariamente tra questi, senza minimamente preoccuparsi del diritto individuale e collettivo alla salute, sarebbe, infatti, soluzione adottata in netto contrasto con il principio di uguaglianza e più dettagliatamente con il complesso degli artt. 1, 3, 4, 32, 35 e 36 della Costituzione.
Ma cosa accade se il datore di lavoro, pur essendo tenuto, non procede alla regolarizzazione del rapporto di lavoro?
In questo caso appare evidente che, seguendo la ratio della norma, i lavoratori assunti irregolarmente o “in nero”, potranno denunciare all’Ispettorato del Lavoro o direttamente al Giudice del Lavoro la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato ed ottenerne la regolarizzazione.
Per i cittadini stranieri, ciò dovrà consentire anche la possibilità di regolarizzare la propria presenza in Italia e di ottenere un permesso di soggiorno della durata di sei mesi per la ricerca di una occupazione, ove ovviamente venga accertata sia la sussistenza del rapporto di lavoro e sia la presenza degli altri requisiti previsti dalla legge.
Si ricorda che, nella precedente regolarizzazione, avvenuta con D.L. 195 del 2002 (Presidente del Consiglio Berlusconi, Ministro della Giustizia Castelli, Ministro del Lavoro Maroni e sottosegretario al Ministero dell’Interno Mantovano), si pervenne alla medesima conclusione.
Anche in quel Decreto infatti si stabiliva, all’art. 1, che il datore di lavoro “può denunciare, entro trenta giorni dalla medesima data, la sussistenza del rapporto di lavoro alla Prefettura – Ufficio territoriale del Governo competente per territorio” ed anche in quel caso però si convenne che la norma andava interpretata nel senso che anche i lavoratori avrebbero potuto denunciare la sussistenza di rapporto di lavoro subordinato.
Inoltre, anche al fine di evitare un contenzioso seriale con l’inevitabile intasamento dei Tribunali, per indicare l’interpretazione corretta del termine “può” contenuto nel suindicato articolo 1, venne emanata una circolare dal Ministero dell’Interno in data 31.10.2002 (c.d. circolare Mantovano).
Tale circolare testualmente affermava: “sono pervenuti a questo dipartimento (dipartimento della pubblica sicurezza n.d.r.) numerosi quesiti in ordine al ricorso presentato da alcuni cittadini extra-comunitari, impiegati in attività lavorative in modo irregolare, i cui datori di lavoro non intendono procedere alla loro regolarizzazione e che, in qualche caso, hanno anche interrotto il rapporto di lavoro, nei cui confronti gli interessati hanno adito formalmente le vie legali (…).la loro posizione si ritiene essere assimilata, in via temporanea, a quella dei perdenti posti di lavoro e rientrare quindi, nell’ipotesi di cui all’art. 22, comma 11, del testo unico, relativamente al rilascio del permesso di soggiorno per una durata di sei mesi”.
Dunque, come stabilito dallo stesso Ministero dell’Interno, anche i cittadini extracomunitari che hanno denunciato i datori di lavoro che si rifiutavano di “legalizzarli”, hanno ottenuto un permesso di soggiorno della durata di sei mesi.
Quanto già avvenuto in passato rafforza l’unica interpretazione costituzionalmente possibile dell’art. 103 del D.L. 34/2020, ovvero che ogni persona che ha lavorato prima dell’8 marzo 2020, nel caso in cui il datore di lavoro si rifiuti di procedere alla regolarizzazione, potrà rivolgersi all’Ispettorato del Lavoro o direttamente al Giudice del Lavoro per far accertare la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato.
In seguito all’accertamento, e sussistendo gli altri requisiti previsti dal D.L. 34/2020, quella persona potrà ottenere un permesso di soggiorno.
Questa interpretazione della norma dovrà, almeno inizialmente, trovare conforto nella giurisprudenza, pur essendoci già diversi precedenti.
In attesa di una circolare esplicativa da parte del Ministero dell’Interno l’Associazione Avvocato di strada, con i suoi legali presenti in 55 città italiane, assisterà giudizialmente le persone che i datori di lavoro si rifiutano di regolarizzare, pur avendo le stesse svolto attività lavorativa prima dell’8 marzo 2020.
Perché la schiavitù è stata abolita da tempo, perché non si può scambiare il diritto con il favore e perché difendere i diritti dei deboli significa, alla fine, difendere i diritti di tutti.
Antonio Mumolo
Presidente di Avvocato di strada Onlus
Articolo pubblicato su “IMMAGINA”